Ansia, depressione, suicidi: “In America c’è una pandemia di malattie mentali”
Ansia, depressione, suicidi: "In America c'è una pandemia di malattie mentali" è il titolo di un articolo apparso su Il Foglio lunedì 6 marzo 2023. Riporta una importante ricerca di Niall Ferguson, che racconta di un'America sull'orlo di una crisi di nervi. Scrive Ferguson su Bloomberg: "il mio amico Jonathan Haid della New York University dice che non c'è mai stata una generazione così depressa, ansiosa e fragile come la Generazione Z", cioè gli americani nati tra il 1997 e il 2012. Le altezze dei tassi di autolesionismo e depressione della Generazione Z non hanno precedenti. Ma il sintomo si espande a macchia d'olio su tutta la popolazione, soprattutto sugli americani bianchi di mezza età con diplomi di scuole superiori di primo e secondo grado. Bloomberg riporta che nel 2019-2020, secondo Mental Health America, il 20,8 per cento degli adulti soffriva di malattie mentali, pari a 50 milioni di americani, con 108.000 decessi di adulti per overdose da droghe; e a riguardo si cita il premio Nobel Angus Deaton che li definì "morti per disperazione". Aggiungiamo a questo anche l'ampissima diffusione di farmaci psicoattivi, prescritti sin dall'infanzia, che spesso generano dipendenza a lungo termine e overdose, tanto quanto alcool e droghe.
Ma il sintomo chiede di essere ascoltato perché portatore di un messaggio, di un significato, non dovrebbe mai essere l'obiettivo della cura.
La visione americana del diritto e del dovere di poter scegliere di vivere e diventare ciò che desideriamo essere sembrerebbe metterci in cammino come viandanti senza fissa dimora. Quali possono essere i necessari contenitori (e dunque paradossalmente i limiti a ciò che non vuole limite) per questo diritto/dovere al vivere se stessi come un dato da cui partire verso la propria esclusiva verità? In passato le norme culturali e sociali istituivano leggi condivise che a loro volta facilitavano e favorivano la vita, facendo affiorare nei dissidenti sensi di colpa e l'eventuale insorgere di stati depressivi.
Questo conflitto ormai tramontato ha lasciato spazio a un altro incombente conflitto che si traduce nella differenza tra ciò che nella nostra vita è possibile e ciò che non è possibile fare. L'individuo solo e "libero" non deve più piegarsi o ribellarsi alle leggi già preconfezionate dal "padre", ma deve mostrare intraprendenza, creatività e iniziativa: non più leggi che cadono dall'alto dell'Olimpo per volere di Zeus (il più adultero degli adulteri), ma iniziative, start up your life, start up innovative, che creano mostri soggettivi a portata della tecnica oppure delle dipendenze che sono l'ombra dell'apparente indipendenza, esseri disumanizzati votati al consumo sfrenato di oggetti mai sufficienti per riempire il vuoto depressivo. I nuovi sintomi sembrerebbero tradursi più in azioni che nella costruzione di un sintomo.
Eppure non è la libertà soggettiva che esprime la possibilità di creare? Certo! Ma ciò che creiamo deve avere un senso, un orientamento e una visione. E questa visione non può essere isolata e correlata solo a sé e ai progressi della tecnica, ma deve fondarsi su emozioni accolte e condivise dentro narrazioni relazionali che sappiano reggere nel tempo. Siamo soggetti solo apparentemente emancipati. Siamo divenuti incapaci di vivere i conflitti, di elaborare i lutti, a partire da quelli che la vita da sempre presenta all'umanità (sulla morte si vedano ad esempio i tanti contributi di Laura Campanello). E ci sentiamo insufficienti a quel mondo che ognuno sente di dover portare tutto intero soggettivamente. Io-Tu si è trasformato in Io-Io, prigionieri della nostra immagine ideale, che non è mai abbastanza.
Le vetrine virtuali fanno poi da cassa di risonanza e da propulsore alle nostre immagini idealizzate, falsificate poiché infine omologate a dover offrire una certa immagine di sé, nella spettacolarizzazione delle esperienze, e nei giovani tali immagini sono amplificate spesso da genitori pervasi dall'ossessione della prestazione, dal negazionismo di qualsiasi sorta di fragilità e fallimento. Genitori che diventano specchio delle aspettative sociali, con i figli a fare da prolungamento e proiezione degli adulti. Beppe Fenoglio ne La malora fa pronunciare queste parole a Tobia: "E se anche fallisco nei miei piani, dovrete sempre ringraziarmi per avermi insegnato a stare male oggi per non stare peggio domani. E non venite a dirmi che peggio di così non si può stare, perché io ci metto poco a mostrarvi il contrario" (Einaudi 2014, p. 58). Divenire coscienti di questo passaggio è la prima tappa imprescindibile per una cura credibile. Se la depressione parla essenzialmente di perdita, cosa abbiamo perso che non si può sostituire? Le spinte creative per il futuro che ognuno di noi dovrebbe portare nel mondo come "una forza esplosiva trattenuta in una trama" (W. Bion, Memoria del futuro, Raffaello Cortina 1998) sono costrette nelle secche di una visione unica, perché tu sei unico, speciale, immortale e infinito dentro il tuo profilo social e, se non lo sei, vergognati!
Se questo filtro sociale "istituzionale del sé" dentro cui siamo immersi non sa accogliere le tante e diverse emozioni che impregnano il nostro mondo soggettivo, o se queste diventano solo occasione di ulteriore esibizione narcisistica a vuoto, ogni emozione non potrà mai essere compresa, divenire fonte trasformativa, essere luogo di autentico riconoscimento di sé e dell'altro, tradursi in nuove immagini e poi in nuove narrazioni stabili, se non quelle contenute dentro l'Ethos di questo tempo: nella "fragilità di un'identità adialettica, che si vive come scissa e sconnessa dall'altro da sé e che fallisce l'impossibile impresa di essere autosufficiente, di essere Tutto il suo mondo" (M. Montanari, Rinascere a questa vita, Moretti & Vitali 2021, p. 63).
Che tipo di contenitore trovano le tante singolarità che ognuno di noi porta con sé come possibile nuova lettura del mondo? E cosa è, di cosa è fatto il mondo? Per prima cosa dovremmo rispondere a questa domanda. Innanzitutto è fatto di relazioni, e il mondo per ognuno di noi nasce dentro una relazione Io-Tu che diventa modello prototipico delle relazioni successive. Un mio paziente mi dice: "Cosa posso fare di fronte alle infinite immagini di guerra che ogni giorno mi sono scaraventate addosso? Certo, non ignorare, non dimenticare. Ma non è questo il punto. Cosa posso fare? Mi sento impotente, debole, inerme, insufficiente. Io al massimo posso gestire bene la mia classe". Il vissuto di debolezza, impotenza e insignificanza di fronte alle questioni che il mondo (familiare, sociale, culturale, storico ecc.) ci impone di vivere, mi pare sia centrale per rispondere all'articolo di Bloomberg con un minimo di responsabilità. Oggi il nuovo conformismo è paradossalmente costituito dalla compulsione a essere coinvolti in sempre nuove iniziative e dall'intraprendenza esponenziale: un vortice mancante della possibilità di relazioni umane caratterizzate dall'Io-Tu, dunque distanti dal modello prototipico che ci costituisce. Questo essere chiamati all'intraprendenza continua si distanzia dagli slanci creativi e vitali che necessitano invece del tempo giusto, di vuoti, di pause e di mancanza. Proprio di sospensioni si sente l'urgenza: ciò che gli antichi chiamavano epochè, e il medico psicoanalista inglese Alfred Bion capacità negativa. James Hillman, parlando di immagini vere, scrive: "L'immagine vera… arresta il movimento. È sospensione. La vera immagine ci guarda" (L'ultima immagine, Rizzoli 2021, p. 107).
Come scrive Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi 2010): "la depressione esprime l'impossibilità stessa del vivere, e lo fa con il linguaggio della tristezza, dell'astenia […], dell'inibizione e di quella particolare difficoltà a dare via all'azione". Potremmo dire "a dare via alla creazione". La depressione americana è un sintomo che denuncia e rinuncia allo spirito di questo tempo, è una forma di ribellione che preferisce morire, perché non si hanno più le forze per morire a se stessi e rinascere in altra forma. La nascita del bambino come perfetto consumatore pone all'orizzonte "la futura adultità con l'incremento della sua capacità di consumo" (R. Màdera, La carta del senso, Raffaello Cortina 2012, p. 115).
Dunque, tornando alla domanda "perché, pur essendo liberi da leggi e fondati sulla nostra soggettività, siamo depressi?", una delle risposte è nell'evidenza di ciò che possiamo osservare: ad esempio, negli adulti che diventano sempre più bambini, desiderosi di infinite cure materne. Bambini dominati dall'oralità, mancanti di futuro, disorientati dentro crisi identitarie. Di fronte alla frantumazione dei grandi contenitori tradizionali di orientamento (religione, famiglia…) la nostra creatività dovrebbe apprendere a generare cose vive che sappiano mettere al centro la propria natura, non repliche morte di cose destinate a durare una notte, o qualche giorno nella migliore delle ipotesi. Spesso, giovani adolescenti che stanno facendo un percorso terapeutico con me mi portano sogni dove sono presenti animali morti, feriti, claudicanti… di quale natura parlano questi sogni e quale matrice stiamo tradendo? Mi pare sia una questione cruciale, una domanda fondamentale.
La creazione di cose vive potrebbe essere una via di cura di ciò che Angus Deaton scrive, quando parla di una popolazione americana che ha visto crollare il proprio mondo (sindacato, chiesa, comunità…), perdendo il senso della propria vita… Un mondo, potremmo aggiungere, non capace di creare nuove forme di contenitori che orientino visioni vive per il futuro, un mondo che porta ad agire l'annientamento di sé o la sovraesposizione di sé, perdendo di vista tutto ciò che sta in mezzo: la fragilità e il fallimento, tra le mille altre cose.