Caro Ezio Bosso
Citavo qualche settimana fa in un articolo Janchelevitch, quando scrive che "là dove finiscono le parole inizia la musica", come se non ci fosse la possibilità di tradurla verbalmente, perché essa sa esprimere ciò che non si può con il segno delle parole.
Per chi ama profondamente la musica, per chi ha la fortuna di poterne accarezzare intimamente gli strumenti, e per tutte le persone in ascolto della vita, non può che vivere di immensa commozione e risonanza con la tua morte. Ogni volta che ascoltavo qualche tua composizione, mi chiedevo, come me lo chiedevo con Petrucciani: quanto ancora? Quanto tempo ti rimane ancora? Ed una frazione di secondo dopo mi rispondevo: infinito; si, infinito, perché il suono della musica, per certi aspetti, è ineffabile, imprendibile, senza soluzione. Ma la musica, come l'amore, è ontologicamente fragilissima, e risuona massimamente con chi di questa fragilità porta bandiera nel mondo; Una bandiera però invisibile, presente solo alle sensazioni, di un aroma inebriante, estatico e immortale. ringraziavi e benedivi la musica, archetipo incarnato di tutta la tua vita; ringraziavi sempre, perché in quelle mezz'ore pericolose e vertiginose dell'esecuzione, si riassumeva l'intera tua esistenza, sino al giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Ho pensato a quale tipo di canto risuonassero le tue cellule, malate e inappellabili nel loro progetto. Cantavano la vita, ne sono certo. Perché la traduzione di quel canto era un suono divino, la traduzione di quella cellula stonata, era un suono di speranza per tutti e con tutti.
Grazie Ezio,
d'ora innanzi, quando leggerò i tuoi spartiti, ricorderò soprattutto l'infinita, ineffabile, presenza.