Skip to main content

Don’t Look Up

Randall: "Quale altra scelta ho?"

Teddy: "Un uomo ha sempre delle scelte Randall.
A volte devi solo fare quella giusta.
"

Don't Look Up è un recentissimo film di Adam McKay (2021). Protagonista concreta e simbolica della narrazione è una cometa di enormi dimensioni ("grande come l'Everest"), destinata a impattare con la Terra distruggendola totalmente: i due astrofisici che hanno scoperto la micidiale minaccia – il dott. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) e la dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) – cercano di farsi ascoltare e comprendere dalla presidente degli USA (Meryl Streep) e dal suo corrotto entourage. Politici ottenebrati e instupiditi dagli scandali, dal denaro-potere, da un'egoistica mancanza di orizzonti e di responsabilità, e da un inquietante personaggio (Peter Isherwell, interpretato da Mark Rylance), ricchissimo guru delle tecnologie digitali. Aleggiano su tutto la menzogna, la superficialità, l'illusione-disillusione dei canali di comunicazione. Tra tensioni e svolte innanzitutto emotive, con una buona dose di amara ironia, le trasformazioni della vicenda e dei protagonisti (ma anche dell'umanità intera) viaggiano verso la catastrofe. Il film ci racconta tutto questo, eppure ci consegna margini di speranza. Lo slogan Don't Look Up, sostenuto per negare ogni concreta verità, non viene seguito da tutti, la catarsi è ancora possibile.

La minaccia esterna è la minaccia interna all'umanità. Recentemente il filosofo della scienza Telmo Pievani ha evidenziato quanto la storia del nostro pianeta, nel corso dei suoi miliardi di anni, sia stata attraversata da una serie di catastrofi con conseguenti estinzioni di massa: l'attuale catastrofe in corso, la sesta, è a opera della specie umana. "Scienza e natura: Darwin aveva ragione?" per "Lezioni d'autore - TV Sessions", su laF, 6/12/2021). Don't Look Up è un film provocatorio, a tratti parossistico, ma che incide con un'intensa sensazione di verità, e in cui sono fortissime le allusioni alle dinamiche psico-culturali della pandemia e della catastrofe ambientale, alla concentrazione di enormi capitali mondiali in poche mani, ma innanzitutto alle perversioni social che stiamo ormai portando alle dimensioni di un enorme corpo celeste distruttivo, e che incidono su tutte le altre dinamiche.

La vita onlife (termine coniato da Luciano Florini) è talmente pervasiva che non si riconoscono più i dati di realtà tra quelli della simulazione, e in cui la catastrofe planetaria è preferibile a una vita "naturale" e quotidiana con la realtà delle cose del mondo. Tutto ciò quanto sta alterando il nostro modo di percepire il mondo e l'esperienza del vedere? Gli strumenti che utilizziamo per connetterci ogni giorno, che tipo di mediatori "vitali" e istantanei (mi basta schiacciare un bottone) stanno diventando? Che tipo di conoscenza corporea ed emotiva stiamo costruendo e veicolando? Questa nostra creatività naturale e tecnologica sta raggiungendo una soglia "contro natura", dove tutto il processo Sapiens evolutivo potrebbe diventare catastrofico come una sorta di istinto di morte in chiave evolutiva?

Don't Look Up risponde anche alle diavolerie tecnologiche che sanno leggere il nostro futuro, e manipolarci nelle nostre scelte, utilizzando i nostri dati depositati in rete. Nel film, Isherwell sa tutto di tutti, anche come ognuno morirà, ma compie un errore madornale riguardo a uno dei protagonisti, che lungo il film saprà invece trasformare il proprio "destino", costruirsi una scelta etica e quindi non tracciabile dagli algoritmi: deciderà di morire con le poche intime, vere persone che ama e che sa riconoscere come centro di autenticità, di possibilità di sentire la vita "intera", anche nei suoi confini con la morte. Mi pare un esercizio di costruzione immunitaria che sa rispondere con senso alla vita e a ciò che di lì a poco ne definirà la fine, riconquistandola in maniera soggettiva e unica. Come ricorda Gianni Celati da poco scomparso, Gilles Deleuze scrive: "il fatto moderno è che non crediamo più in questo mondo. Non crediamo più neanche agli avvenimenti che accadono, l'amore, la morte, come ci riguardassero solo a metà…" (Celati, Quodlibet, 2022, p. 268). C'è l'urgenza di una ricostruzione della fede in questo mondo quindi di un'etica che, nel film, è rappresentata dall'ultima cena che uno dei personaggi sceglie di consumare con le persone a cui sente di credere.

L'impensabile, l'intollerabile, l'incontenibile di una cometa che sta per distruggere tutti (non è la cometa della buona novella…) si impasta con l'incapacità di gestire qualsiasi frustrazione, anestetizzati dall'idiozia dilagante della banalità quotidiana o, ed è il polo opposto, da un ritiro radicale dalla società, come avviene per molti giovani che dicono addio alla vita dal rifugio delle loro stanze. La banalità quotidiana paralizza il pensiero, soprattutto quello delle generazioni più giovani (ma certo non solo); i prodigi incontrollati delle nuove tecnologie alimentano un'anestesia del pensiero come antidoto alla vita. Gli adolescenti che seguo come terapeuta quotidianamente mi dimostrano spesso d'essere molto consapevoli della portata anche distruttiva e separativa di alcuni stili di vita.

Che tipo di algoritmo si inventeranno per farci godere la vita in un certo modo, magari identica a come la desideriamo illusoriamente? Her, di Spike Jonze (2013), è un altro film emblematico in tal senso: costruire un'anima gemella digitale. Siamo tutti costretti a rincorre qualcosa che in realtà, da tempo, ci ha già preso dentro la rete delle false vicinanze del mondo costruito attraverso sistemi informatici privi di un sistema etico altrettanto sviluppato ed emancipato. 

Lo sviluppo tecnologico non si sta accompagnando proporzionalmente allo sviluppo del carattere e alla formazione alla vita. Non si sta sviluppando in concomitanza con lo sviluppo di responsabilità, partecipazione, ma soprattutto valorizzazione dei nostri giovani sempre più allineati all'interferenza del non sentire e alla partecipazione esclusivamente mentale (il mondo dei like) al mondo. Dove è finito il corpo, intra-visto e consumato attraverso uno smartphone? Il corpo celeste che sta distruggendo il pianeta nel film, tutto sommato, è assimilabile a quei corpi umani consumati online, corpi senza sapore, senza odore, senza vita: non credibili, come la cometa. Spesso per sentirli, quei corpi, ragazze e ragazzi sono costretti a tagliarli, a maltrattarli, a metterli alla prova della loro vera esistenza.

Adolescenti che dovranno lottare per recuperare l'esistenza di un corpo non più a distanza, ma praticabile come ingrediente fondamentale della vita. Adolescenti che, nati nel nuovo millennio, si abituano a relazioni virtualizzate e trasmesse loro dal mondo adulto sotto la veste di nuove normalità; la ricerca di una forma individuale e identitaria idealizzata e irraggiungibile avanza e precede ogni conflitto, ogni protesta, ogni ribellione (molti dei nostri giovani non si sentono più). Nel film la giovane ricercatrice si sente disperatamente sola…

Dal punto di vista clinico il ritiro dal corpo rappresenta la sua negazione, situazione spesso riscontrabile nei disturbi del comportamento alimentare. L'anoressia, tra le tante cose, nega il corpo all'interno di una paradossale mentalizzazione. Anche per molti dei giovani in ritiro potremmo pensare a una forma di anoressia mentale, molto simile a quella relativa al nutrimento tramite il cibo. Il senso di inadeguatezza e di vuoto (e i sensi di colpa connessi alla vergogna narcisistica) spesso è il segno della percezione profonda di una mancanza rispetto a ideali troppo estremi imposti dalla società, ma anche segno di una lucidità maggiore rispetto alla media collettiva nel vedere che la minaccia "esterna" non è altro che l'assurdità di certi atteggiamenti collettivi, che presto si infrangeranno sulla terra come una cometa nella caduta di senso e nella creazione illusoria ed egoistica di una second life altrove, mortifera come nel film.

Che la pandemia sia veramente occasione per ripensarci profondamente, e ripensare altrettanto profondamente alla nostra relazione con il pianeta che abitiamo: forse è l'ultima occasione, come ci suggerisce il regista di Don't Look Up.

Ecco che l'obiettivo prioritario è quello di rieducarci a una familiarità con il mondo delle cose e degli affetti, così come sono, dentro una sorta di nuovo neorealismo affettivo che non ci seduca con la fabbrica delle infinite immagini istantanee, ma ci insegni a rallentare e a fermarci sulle cose semplicemente per come sono, nella loro infinita complessità. Che ci ricordi che i modelli di riferimento e di persuasione comunicativa sono prevalentemente fabbricati e imposti (dal mondo degli adulti, e questo film è magistrale in tal senso). Ogni giorno, per ognuno di noi e collettivamente, ha le sue azioni… 

Un amore radicale per la vita
Dialoghi - Chat 6: le memorie del corpo