Immagini, mito e poetica della clinica
Qual è lo sguardo che storicamente il maschile ha posato sul mondo femminile? Una fiaba del popolo boscimano, citata nel testo, narra di un uomo che possedeva una mandria di mucche e che "scoperse una notte che delle giovani donne del popolo celeste scendevano da una corda che calava dalle stelle e mungevano le sue mucche. Catturò la più bella e ne fece la sua sposa. Erano felici, ma la donna, che possedeva una cesta, lo pregò di non guardarvi dentro per nessun motivo, altrimenti avrebbero patito un'immensa sciagura. Un giorno l'uomo, afferrato dalla curiosità, sollevò il coperchio della cesta e scoppiò a ridere, dicendo alla sua sposa: 'Perché facevi di questa cesta un così grande mistero? Dentro non c'era niente!'. La donna si allontanò verso il sole del tramonto e svanì per sempre. Allora la nutrice aggiunse: 'La donna non se ne andò perché l'uomo aveva infranto la sua promessa, ma perché, guardando nella cesta, non vide nulla'" (p. 62).
Cosa significa che la donna se ne andò perché l'uomo fu incapace di vedere ciò che custodiva il mistero di quella cesta? Anzitutto si tratta dell'incapacità di vedere oltre se stesso, di riconoscere un'alterità che non sia semplicemente la rappresentazione del suo mondo proiettato e riflesso, bensì un altro mondo che può contenere tanti mondi possibili. Sonia Giorgi scrive che "Eros, il Dio delle donne, cambia lo sguardo rendendolo più critico verso la banalità del mondo; induce però ad amare, senza remore alcuna, la diversità dell'Altro, dell'Altra. Eros si darebbe, insomma, come cura del narcisismo imperante" (p. 155).
Da un punto di vista clinico è come se dovessimo uscire da qualsiasi stereotipata classificazione interpretativa per educare l'attenzione a ciò che emerge, a ciò che il sintomo può mostrare se visto e ascoltato nel modo adeguato. Potremmo parlare di una clinica minore, perché più difficile da cogliere, più difficile da utilizzare, e fuori dalle strade battute. Ci si deve sempre sentire un po' Queer di fronte a qualsiasi sofferenza che grida il suo dolore, per accedere a un altro sguardo che, per le due autrici, è anzitutto immaginativo e simbolico poiché sa produrre qualcosa di molto vicino alla musica, al canto e alla poesia. Carla Stroppa ci ricorda che "La poesia è per forza di cose intrinsecamente visionaria. Seduce e conduce nei risvolti più sensibili della psiche: non pratica solo la dimensione orizzontale della vita, ma anche quella verticale che si spinge in profondità e azzarda il volo della trascendenza" (p. 178).
Come suggerisce Bourlez "la clinica minore, si sforzerebbe di minare le certezze della clinica maggiore. La disseminerebbe, la devierebbe dalle strade battute […] considerare il corpo come un luogo fatto di tensioni, di nodi che si formano attraverso le norme e in cui il desiderio non si manifesta solo in funzione di una verità pulvinare, ma anche di una plasticità storica attualmente inaudita"[1]. La ricerca approfondita di Iolanda Stocchi sul simbolo delle sirene può essere un esempio molto significativo di come la plasticità storica diventa evidente quando si cerca di decostruire tutta una narrazione del femminile patriarcale che, a partire dall'Ulisse di Omero, è stata costruita e diffusa come verità. "La Sirena è stata vittima di diffamazione mitologica poi psicologica; è stata infatti vista come simbolo della seduzione, della tentazione a cui resistere; come Anima divorante, Ombra e sintomo da eliminare". Le immagini che ci mostrano Iolanda Stocchi e Sonia Giorgi sembrerebbero mostrare un altro significato della sirena in tutta la sua regalità e sacralità.
Ma torniamo a quell'uomo della leggenda boscimana. Perché non riesce a vedere nulla nella cesta? Probabilmente perché utilizza la stessa logica di Ulisse di fronte alle sirene, la logica dell'aut-aut, del pericolo seduttivo e lussurioso, del pensiero binario e riduttivo. La sirena è stata quindi vittima diffamazione mitologica e psicologica: un femminile tradito e diffamato che nel Medioevo, ad esempio, desiderava fortemente incarnarsi vincolando l'eroe a un patto. Ma, come altre storie, anche questa finisce male: il femminile vola via gridando perché il maschile non è in grado di mantenere l'accordo. Non è in grado di ritirare le sue proiezioni, il suo modo di vedere e vivere è dominato dalla lente del logos. L'uomo hybris non vede nulla nella cesta perché, come scrive Marco Manzoni in Salvare il futuro[1], necessita dello sguardo dell'uomo pathos. Homo pathos è quello che sa tenere insieme mente, corpo, anima e che pone al centro della sua esistenza la relazione armoniosa – e non più il dominio – con la Terra, il Cielo, l'altro. Nella modalità posturale dell'uomo hybris, il mondo femminile velato nel fondo della cesta non può essere intercettato.
"La psiche consiste dunque essenzialmente per immagini. Per questo motivo, per parlare di psiche con i pazienti ricorro sovente a metafore e immagini, nonché a quella che ho chiamato una diagnosi mitica. Credo infatti che nel mito e nelle immagini si trovino espressi il problema e la soluzione…".
Potremmo pensare per certi aspetti anche alla Medea di Seneca. Come scrive Anne Dufourmantelle dandole voce: "Ciò che ho commesso finora, lo chiamo un'opera di amore. Ora sono Medea, la mia natura è cresciuta tra le sofferenze"[1]. Medea è per eccellenza la figura della madre selvaggia, della madre assassina che per gelosia non esita a sacrificare i suoi due figli per vendicarsi del loro padre, Giasone. È la Baba Jaga delle fiabe russe, l'orchessa, la cattiva, la maga, colei che infiamma l'amore e che sacrifica tutto alla donna. Simboleggia la potenza distruttrice e cieca della passione, ma anche la ribellione di una donna che ha cercato di essere libera[2].
La psicoanalisi, ma non solo, fin dall'inizio è ricca di presenze femminili che hanno contribuito al suo sviluppo, anche se mai totalmente riconosciute. Sonia Giorgi e Iolanda Stocchi si chiedono se oggi sia possibile immaginare un sapere (anche psicoanalitico) che non sia solo una Atena nata dalla testa di Zeus. Esiste un modo di vedere e percepire il mondo e le relazioni riconoscibile come femminile?
Mi pare una domanda non solo urgente, ma anche estremamente inseribile tra le domande che in questi anni sanno interrogare più di altre le diverse correnti della psicoanalisi contemporanea che, seppur declinate in modo diverso, rispondono alla stessa matrice definitoria storica e maggioritaria di genere e di identità di genere. Sull'ambiguità normalizzante di alcuni temi mitici della psicoanalisi, come ad esempio il complesso edipico nell'accezione psicoanalitica delle origini, Judith Buttler fonda la sua radicale critica decostruttiva intorno ai postulati omofobi e binaristi della psicoanalisi. Una pratica analitica che mira alla costruzione di nuove forme del campo analitico, votata ai marginali, agli scarti e agli oppressi sottoposti a violenze e oppressioni continue. La costruzione di un nuovo linguaggio implica la costruzione di un nuovo atteggiamento soprattutto per chi non si sente allineato con la suddivisione in due soli generi. "Il genere è una complessità la cui totalità è costantemente differita, e non è mai pienamente ciò che è in una data congiuntura temporale […] a seconda degli scopi del momento […] sarà un insieme aperto che permette convergenze e divergenze multiple, senza che si debba obbedire al telo normativo di una richiesta definitoria"[1].
Come ci ricorda Iolanda Stocchi nel suo Il Silenzio delle Sirene, "quando l'oggetto d'indagine, come le sirene, è un'immagine archetipica, ci scontriamo con la sua natura soggettiva e la sua autonomia che sfugge ai tentativi di spiegazione, r-esiste alle domande. È sempre un po' più in là oltre il luogo in cui ci sembrava di averlo sorpreso"[2]. Questo sguardo attento soprattutto alla domanda, le autrici di Immagini, mito e poetica della clinica lo portano e sviluppano non solo nella loro vita, ma anche nella stanza dell'analisi. Una poetica della clinica che non mette al primo posto l'interpretazione, bensì la creazione condivisa delle immagini emergenti.
Scrivevo ne La psiche colorata[3] che per Jung l'immagine e il senso sono identici, e come la prima si forma così il secondo si chiarisce. Alla forma non è necessaria propriamente nessuna acrobazia interpretativa, essa rappresenta da sé il suo proprio significato vivente che si colloca in un processo esperienziale… La relazione analitica sa produrre un suono che ricorda quello poetico in cui la rima baciata viene spesso intralciata da distorsioni sintattiche e dove le asperità inevitabili della vita sanno aprire continue cesure, inversioni di frasi, sincopi, prolungamenti di note legate, pause, silenzi, interruzioni di note puntate, puntini, un uso imponente delle parentesi che indicano una polifonia teatrale dove l'io si sdoppia, si moltiplica e si disperde per poi ritrovarsi e proseguire con quell'apertura impregiudicata legata al segno di punteggiatura "due punti". Hillman scrive che "le nostre immagini sono i nostri custodi, così come noi lo siamo di loro" (p. 49).
Per una diagnosi mitica, Sonia Giorgi ci ricorda con Jung e Hillman che "le dee, e naturalmente gli dèi, le loro storie raccontate nel mito, rappresentano una forza istintuale di cui gli antichi percepivano la potenza e che veneravano come sacra, degna di rispetto, ma che oggi non riusciamo più a contattare perché rimossa" (p. 129). Dobbiamo ripartire da qui, da quelle immagini radicali e profonde presenti nell'interiorità di ognuno di noi come nella Storia. Viaggiamo dunque in questa ricerca, come nelle vie del labirinto unicursale cretese di Cnosso, per Sonia Giorgi snodo cronologico tra la soglia del patriarcato e il precedente sistema matrilineare, "che trovò espressione in un tempo prima della storia" (p. 140). Il labirinto cretese come simbolo di elezione del modo di pensare femminile. Un archetipo di origine paleolitica che sa rappresentare un luogo concreto e nel contempo immaginario: "è una via che si snoda verso l'interno, salvo poi ritornare andando verso l'esterno, mettendo un segnacolo del confine tra l'uno e l'altro; è iniziazione al centro e al mondo" (p. 140). Un movimento tra interno ed esterno che, a partire dal mito di Arianna, diventa danza, rito di morte e rinascita, meditazione in movimento: si può ritenere che "il percorso del labirinto, il quale attiene all'iniziazione alla vita e alla morte – il mistero dei misteri che giace nella più profonda oscurità –, sia legato archetipicamente al grembo e al femminile" (p. 145), e a quella necessaria altra forma del pensare cui Jung più volte ci ha richiamati.Nel viaggio della specie umana, "come ci si incammina, a quale fine, come si ritorna, per recarsi dove, sono domande proprie dell'umanità, alle quali ogni civiltà ha dato una risposta diversa" (p. 147); nel viaggio individuale, "ci si sporge nel luogo meandrico della ricerca di sé, del senso, della conoscenza, al bordo di morte e rinascita, sperando – talvolta contra spem – nella rigenerazione, avendo fede nella trasfigurazione di ciò che è personale, ma anche del collettivo" (p. 158). Avanziamo nei miti e nelle loro figure come nei sogni, nella complessità del dialogo tra coscienza e inconscio. "L'archetipo del labirinto – scrive Sonia Giorgi – può darsi ed essere letto come figura dell'analisi, oltre che dell'intera vita" (p. 156).
Chi viene ucciso nel labirinto di Cnosso? Il Minotauro, mostro carnefice strumento dei sacrifici e a sua volta vittima sacrificale. Come non ricordare ad esempio, tra le molte che la letteratura nel corso dei secoli ci ha donato, la dedica di Borges a questa figura mitologica, nella sua attesa di essere liberata? Dice il Minotauro-Asterione dello scrittore argentino: "'So che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me?'. Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue. 'Lo crederesti, Arianna?' disse Teseo. 'Il Minotauro non s'è quasi difeso'"[1].
Laggiù, al centro del labirinto, al centro dell'anima, qualcosa o qualcuno, una parte di noi e del mondo, attende di essere conosciuto e liberato. Attende un dialogo, per liberarsi dal destino di Ombra carnefice che blocca la vita. In diversi labirinti (sia simbolici sia concreti, nelle raffigurazioni pittoriche come nelle architetture) la via d'uscita è non solo nell'entrata, ritornandovi facendo il percorso a ritroso, bensì è proprio nel centro. Per muoverci nel viaggio, per comprenderne il senso, per scorgere e attraversare le vie d'uscita, dobbiamo coltivare eros, logos ed ethos ma anche, come ci indica Iolanda Stocchi, questo: "Un altro aspetto che mi è stato ben presto chiaro è che una donna, per diventare tale, deve imparare a rimanere tra terra e cielo, ad abitare due mondi, ma prima è necessario scendere negli Inferi, incontrare l'Ombra e il femminile ctonio. Invero, il lavoro sull'Ombra del femminile è cruciale per l'individuazione di una donna, per essere femminile, intelligente ed etica al tempo stesso" (p. 38).
Vale per il femminile, vale parimenti per il maschile. Vale insieme, per coltivare il pathos, al di là di ogni hybris. Nell'intreccio di Ombre e reciproche proiezioni, lungo il corso della Storia e delle storie di ognuno, la possibile via d'uscita è innanzitutto nel riconoscimento di una scelta necessaria: ossia quella di intraprendere il percorso per divenire esseri umani. Un faticoso cammino senza sconti e senza scuse, e così appassionante, nei molteplici labirinti presenti nella stanza d'analisi quanto nella vita quotidiana.
[1] Bourlez F., Queer Psicoanalisi, Mimesis, Milano-Udine, 2022, p. 21.
[2] Manzoni M., Salvare il futuro, Moretti & Vitali, Bergamo, 2021.
[3] Dufourmantelle A., Maternità e sacrificio, Castelvecchi, Roma, 2019.
[4] Ibid., p. 15.
[5] Butler J., Questioni di genere, Laterza, Bari, 2013, p. 26.
[6] Stocchi I., Il Silenzio delle Sirene, Vivarium, Milano, 2005, p. 15.
[7] Janigro N., Mirabelli C., Paterlini I., La psiche colorata, Moretti & Vitali, Bergamo, 2022.
[8] Borges J.L., La casa di Asterione, in Tutte le opere, vol. I, Mondadori, Milano, 1984, p. 821.